Come per ogni artista che meriti a pieno titolo questo appellativo, anche per Paolo Bigelli è arduo tentare di intrappolare in un’arida elencazione di temi ricorrenti la poetica che sprigiona, potente e controllata, la sua ormai vasta produzione pittorica.
Certo, è innegabile un periodico soffermarsi su spunti di riflessioni privilegiati, che conferiscono carattere unico al suo mondo poetico, ma sarebbe riduttivo, se non addirittura suscettibile di critica, ricondurre un simile plot iconografico, così ricco e vitale, ad immagini e motivi che, se perentoriamente definiti elementi distintivi, non darebbero il giusto risalto all’urgenza pittorica di Bigelli.
Quanti di noi, immersi nell’osservazione attenta di un’opera pittorica, si sono attardati nella puntualizzazione del “cosa” e “come”: il soggetto, prescelto dall’artista come argomento, e la sua conseguente realizzazione materiale. Una convenzione, peraltro, che affonda le sue radici in una tradizione classicista, completamente sovvertita, qualora non abolita, dalle avanguardie storiche del Novecento.
Nell’opera di Bigelli, lontana dal poter essere stigmatizzata come portatrice di “sovversione” iconoclasta o di velleitaria rottura con il passato, è impossibile disgiungere il cosa dal come, in quanto il cosa non può trovare la sua emanazione materiale senza il come, e viceversa.
Operare questa separazione equivarrebbe a snaturare un’unità di intenti, che, ora sì, regala ai dipinti di Paolo Bigelli il quid che li fa unici: la perfetta osmosi tra passato e futuro, un ponte lanciato verso il domani, da percorrere insieme, fiduciosi di non rinnegare le nostre radici culturali ed esistenziali ma ugualmente determinati a vedere l’oltre.
A suffragio di quanto sopra esposto, allo scrivente basterebbe raccomandare un’attenta disamina di ANNA BOLENA, dove la classicità del tema affrontato fa paio con la modernità e originalità della tecnica compositiva. La dicotomia “moderno/classico” è serenamente superata dall’interazione di cosa e come: l’acceso cromatismo che fa da sfondo alla nobile figura di donna ha senz’altro una connotazione fortemente non naturalistica, quasi onirica e astratta, ma i colori prescelti per la sua realizzazione rimandano senza ombra di dubbio a suggestioni medievali, gotiche. Il senso della dimensione storica è dunque dato dal colore, dal puro e semplice colore, nulla di più. Una sintesi folgorante, colta e misurata, che dice molto di più di ogni esegesi storica. La compostezza ieratica della nobildonna lascia trapelare l’accettazione fiera di un futuro ormai segnato; le mani in grembo sono quelle di una donna tranquilla; la ricchezza dell’abito appartiene a chi, anche nella disgrazia, non rinuncia alla dignità del suo rango; il viso, dai connotati sfumati, è di colei che viene fagocitata dalla Storia (il nero), imperscrutabile e terribile, e dal proprio Destino (il rosso), non meno spietato.
L’onirismo, il simbolismo, l’elemento dell’acqua, il corpo disegnato con toni di acceso lirismo, il particolare che regala il senso del tutto, i fregi cromatici che orgogliosamente rivendicano un trascorso di illustratore, la languida malinconia di paesaggi tratteggiati con la dolorosa coscienza della fugacità della bellezza: sono temi che non avrebbero compiutezza senza l’accorta padronanza del mezzo.
Massimo Tirinelli
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